“Alabastro s. m. [dal lat. alabastrum, gr. alábastron] Roccia sedimentaria a struttura fibrosa e fibroso-raggiata, compatta, traslucida, a zone concentriche spesso diversamente colorate (dal bianco al giallo-bruno), esistente in due differenti tipi, l’a. gessoso o di Volterra, più tenero e meno pregiato, e l’alabastro calcareo o orientale (detto anche onice se recante zone a tinte molto distaccate); vengono entrambi usati come pietre da decorazione e per piccoli oggetti ornamentali.”
È la definizione del vocabolario Treccani, ma è meglio che sia tu a raccontarmi questa pietra.
Non so nemmeno se è una pietra perché in fondo è un gesso cristallizzato a contatto con l’acqua di mare, si è legato e ha creato questa forma. C’è anche una formula chimica che lo definisce.
Dal mio punto di vista è il materiale più bello del mondo. Dal lato didattico, non c’è materiale migliore. Se uno deve abituarsi a lavorare con le mani e col cervello l’alabastro si presta al massimo, vedi subito il risultato del tuo lavoro e quello che realizzi ci rimane. Se lo fai in creta in cottura invece avresti una riduzione del 7%, per dire.
L’alabastro è morbido, tenero. In un scala di dieci ha durezza 1, 1 e mezzo mentre il marmo è 2, 2 e mezzo e il diamante 10. Non è corrosivo, non da problemi di salute. Si lavora con facilità, con qualsiasi mezzo, ed esteticamente è valido. A me piace la varietà della pietra e la pietra che ha del colore.
Quando incominci a lavorare il colore non lo vedi, poi, poco a poco, ti appare in un punto particolare. È
sempre una sorpresa. Il colore, le sfumature, dipendono dalla conformazione del terreno, dai minerali, dalle sostanze e dai materiali organici con cui entra in contatto come il ferro o l’argilla.
Adesso sto lavorando una pietra gialla, probabilmente, è dovuta allo zolfo o almeno me lo immagino come penso che quella celeste, un colore particolare, godibile e molto bello venga dal cobalto. È difficile fare una classificazione del nostro materiale; quel che è certo che ci sono più di cinquanta sfumature. C’è lo scaglione: la pietra che si estrae in profondità è trasparente. Il bardiglio – noi si chiamava così perché assomiglia al bardiglio, un tipo di marmo – è invece una pietra di superficie che, a contatto con altri materiali, ha acquisito venature grigie e scure. La pietra marmo è bianca, la si trovava dappertutto e la si poteva colorare facilmente. C’è un infinità di sfumature e di colori che vanno dal rossiccio all’arancio.
Ho letto che l’alabastro veniva impiegato nell’antico Egitto come materiale architettonico per rivestimento degli edifici e per vasi votivi. Lo si ritrova nell’arte cretese micenea, nell’arte assira, mentre i Fenici lo utilizzavano soprattutto per la fabbricazione di vasi che contenevano olii per la cura del
corpo.
Da noi i primi sono stati gli etruschi ad usarlo per le urne cinerarie e i sarcofaghi. Era la pietra dei morti perché ci ricreavano il viaggio all’aldilà o la vita del defunto. L’alabastro era un materiale che si trovava facilmente e permetteva di fare sopra i particolari, le particine e inciderle bene. A quei tempi lavorare le pietre dure come il marmo era difficile. Usavano anche il tufo, ma è meno compatto, non riuscivano a caratterizzare i personaggi.
Erano bravi gli scultori etruschi! A me hanno dato sempre dell’etrusco, sarà per il mio naso, ma l’arte
etrusca non mi è mai interessata più di tanto. Sì, una volta, ho rifatto l’Urna degli Sposi esposta al Museo Guarnacci, che è in terracotta, ma non mi sono messo, come degli amici miei, a rifare figure etrusche in alabastro.
Continuiamo con la storia dell’alabastro.
I romani preferivano il marmo delle Apuane e l’alabastro finisce nel dimenticatoio. Nel medioevo quasi sparisce. Sembra che qualcosa sia stato fatto dai frati camaldolesi alla Badia, e sembra sia stato utilizzato per vasetti che contenevano unguenti e profumi.
Nel cinquecento qualche artigiano di Volterra fa acquasantiere, candelabri, cibori e si raccontava, ma è una leggenda, che si fosse trovato un teschio di alabastro fatto da Leonardo.
Nel settecento si parla di scatole per il tabacco e si dice che i contadini facessero palline d’alabastro per i
rosari e che quelle palline rivestite diventassero poi delle perle false.
L’alabastro come attività economica inizia, in linea di massima, fra la fine del settecento e l’ottocento quando Marcello Inghirami fondò la fabbrica; chiamò scultori validi, anche di fuori, anche francesi, per lavorare l’alabastro e insegnare ai suoi operai. Cominciarono copiando figure greche e romane, facendo vasi e orologi neoclassici che ebbero subito un certo successo perché era un materiale lavorato
a mano e faceva concorrenza alle pietre dure anche sul prezzo, costava molto meno. Da lì trasmisero l’esperienza ad altra gente, si fece una scuola di disegno e di scultura e ognuno prese una strada sua. Si crearono altre botteghe e la fabbrica Viti che induriva e colorava l’alabastro per farlo diventare una pietra adatta per mosaici e intarsi. Avevano intrapreso anche il tentativo di bollire l’alabastro per
farlo sembrare marmo bianco e funzionava.
Fu in quel periodo, alla metà dell’ottocento, che i viaggiatori dell’alabastro, come Giuseppe Viti, iniziarono a girare per tutto il mondo e a vendere quello che si faceva a Volterra. Andavano in Francia, in Inghilterra, in Germania, in America, in Sud America, in India e in Cina alla ricerca di nuove piazze. Ritornavano con nuovi materiali, con innovazioni tecniche e la conoscenza di altri mercati. Sapevano cosa voleva la gente nei paesi che avevano visitato e cosa sarebbe stato importante portarci.
Per descrivere la metà Ottocento, primi del Novecento ti faccio due nomi: Albino Funaioli e Giuseppe Bessi. Il Funaioli fu uno dei primi di cui mi parlarono i vecchi alabastrai, era uno scultore abbastanza bravo. Faceva bassorilievi, cammei e busti come quello di Garibaldi. È famosa una sua scultura: la donna velata. Giuseppe Bessi, che chiamavano il Maestro, era uno scultore che veniva dall’Accademia di Firenze. Faceva busti e figure femminili, insegnò alla Scuola d’arte e, con i suoi figlioli, mise in piedi la Ditta Bessi.
E Umberto Borgna?
È stato un personaggio importantissimo. Era un designer o meglio un disegnatore, dato che il designer viene dopo. Lavorava per la Sarpa e il suo compito era di preparare i disegni per gli alabastrai. La sua abilità stava nel fatto che quando faceva un disegno lo faceva in proporzione, alla misura in cui lo
doveva fare l’artigiano ed era perfetto. Se uno prendeva le misure e le riportava sulla pietra ritornavano sempre. Ha fatto migliaia e migliaia di disegni: vasi, candelabri, colonne, lampadari e poi anche cose sue, personali. È stato uno dei pochi che ha portato lavoro a Volterra. Sui suoi disegni ci si lavora ancor’oggi.
Come si cavava l’alabastro e come lo si lavorava?
Al Marmolaio, a Castellina Marittima, a Orciano, alla Faltona, a Santa Croce le cave prima erano quasi tutte in galleria. Perché se il marmo è in parete l’alabastro è a ovoli. Si chiamano così perché hanno quasi la forma dell’uovo. Sono blocchi d’alabastro che si trovano a strati nella roccia gessosa. Prima in superficie poi a 7 metri, poi giù, giù fino a più di 200 metri sotto terra.
Quando individuavano l’ovolo, i cavatori, che a Castellina chiamavano cavaioli, lo scalzavano prima con i picconi, in tempi moderni con i martelli pneumatici, lo pulivano e ne vedevano la trasparenza. Se era valido lo staccavano dalla roccia e con un carretto e con le corde lo portavano in superficie. In superficie pettinavano il pezzo, ovvero lo pulivano dalla terra e dello sporco tutta la parte esterna dell’ovulo.
A Volterra, una volta, c’era giusto un magazzino o due dove esponevano la pietra. L’artigiano sceglieva il pezzo che gli ci voleva a seconda del lavoro che doveva fare. Poi con un carretto in ferro e con l’appoggio e l’aiuto di altre persone – perché Volterra, con le salite e le discese, non è molto praticabile – lo portava in bottega.
C’erano le botteghe degli scultori con gli sbozzatori e i rifinitori, le botteghe degli animalisti, degli squadratori che facevano scatole e scatoline, quelli che si dedicavano all’ornato e i tornitori.
Un tornitore, per esempio, andava in magazzino e prendeva un ovulo, il più rotondo possibile. Stabiliva cosa farci e, ai tempi dei tempi, cominciava con una sega a mano o in due con un trincione, quella lama con due manici. Poi, nel dopoguerra, cominciarono ad arrivare le seghe a nastro, a motore e persino una sega orizzontale studiata da un volterrano: mettevi la pietra e la sega si alzava e si abbassava. Tagliata la lastra, con un modano, un modello di carta ritagliata come quello dei sarti, oppure una girella disegnavano sulla pietra le misure di quello che dovevano fare sempre mantenendo un leggero margine.
Se le scatole erano di 20 centimetri se ne facevano a 21. L’alabastro veniva tagliato a parti quadrate
e poi con una martellina si toglievano gli angoli di modo che quando veniva messo sulla coppaia non desse noia. La coppaia prima era a pedali, pedalando l’alabastraio faceva girare una prima ruota e poi una più piccola e il pezzo veniva tornito con i ferri rampini e compassi. Poi arrivò quella elettrica.
Per incollare la pietra, a quei tempi, si usava uno stucco fatto con la pece greca, l’alabastro e altri
materiali e ognuno se lo faceva da sé.
Chi faceva l’animalista adoperava mazzuolo, raspa, sega e scuffina, quest’ultimo un ferro importante inventato dagli alabastrai stessi. L’animalista aveva un profilo di un cane, di un uccello; sulla lastra disegnava i modellini e, con una sega più piccola, lo contornava.
Gli scultori avevano un modello in gesso o in creta; prendevano il pezzo di pietra adatto e poi con un pantantografo, probabilmente lo stesso che avrà adoperato Michelangelo, riportavano sulla pietra, che gli sbozzatori avevano sbrogliato, le misure del modello.
I rifinitori erano i più considerati, ma dovevano sempre copiare dal modello. Dovevi farlo preciso, e se non lo facevi preciso avevi fatto qualcosa che non andava bene. Di tuo ci mettevi poco, solo la tecnica.
Prima l’alabastro veniva lucidato per imitare le pietre dure, anche se, per me, basta l’olio per far venire fuori il colore. È inutile leccarlo, lustrarlo. Ma allora si usava così. Era il lavoro delle donne e dei garzoni di bottega. La pietra veniva levigata a mano con la pelle di pesce e poi con la sprella, un tipo di erba che si trova intorno agli acquitrini: ha un gambo rustico e fine. Poi venne la carta da carrozziere e, da ultimo, la macchina con due spazzole come pani tondi che giravano. Era il peggio lavoro perché veniva usata una pasta che conteneva silicio. Riscaldandosi si vaporizzava. E provocava la silicosi. Ce l’aveva anche
mia madre.
No, quella polvere non era come la polvere bianca dell’alabastro che si smaltisce bene.
Con l’alabastro bastava un bicchier di vino.
O, almeno, questa era la nostra scusa.