La dimestichezza con le varie tecniche di lavorazione dell’alabastro mi ha aiutato per il lavoro che ho svolto per più di trent’anni come professore all’Istituto Statale d’Arte a Volterra. Sono “bravino in tutto”, non è falsa modestia, ma la cosa fondamentale è stata sempre la passione per il mio lavoro.
Da ragazzo venivo incoraggiato a studiare, perché il mestiere di alabastraio rendeva, ma era duro. Ai bambini veniva detto: “studia, bimbo, sennò finisci alla tavoletta”. La tavoletta è un piccolo piano di legno attaccato al tavolo sul quale l’alabastraio poggia oggetti in corso d’opera. Mio padre voleva che diventassi ingegnere, così mi iscrisse alla scuola media a indirizzo tecnico, ma già dal primo anno, all’età di dieci anni, decisi che non era cosa per me, ma a dire il vero non ero interessato neanche alla letteratura, alla grammatica e al latino. Ancora adesso non mi piace scrivere, cosa che mi comporta un certo sforzo e certe volte mi sento a disagio con le persone estremamente erudite. Scelsi invece il programma di sei anni all’Istituto d’Arte, dove trovai lo stesso ambiente della bottega, che mi faceva sentire a casa. I miei maestri mi arricchirono non solo tecnicamente, ma anche dal punto di vista artistico; fu mio insegnante il magnifico Trafeli, uno scultore di fama internazionale e un altro scultore talentuoso, Lanciotto, quello che faceva i “dragoncini”.
Dopo la scuola, venne il momento di un anno di servizio militare e stetti via “con altri bravi italiani” nel ’64 e nel ’65. Pensare che fino al quel momento non mi ero mai allontanato da Volterra! Per l’occasione, mi rasai la testa e andai a Trapani, in Sicilia, per tre mesi e poi, inaspettatamente, venni trasferito a Udine, dall’altra parte dell’Italia. Sono stati quindici disperati mesi di lavoro inutile, mandati qua e là come marionette: la peggior esperienza della mia vita. L’unica cosa positiva sortita dal mio servizio sono state le amicizie che ho instaurato con uomini dalla Puglia e della Lombardia, amici con cui ho contatto tuttora.
Quando rientrai a Volterra mi sposai, come ogni altro bravo cittadino, e tornai anche nell’azienda di famiglia. Quando mio padre smise di lavorare, alla fine degli anni ’70, a causa dell’asma, però, i rapporti tra noi fratelli si deteriorarono, in parte a causa dei modi di fare autoritari di quello più grande. Fu in quel periodo che decisi di intraprendere la mia strada, trovai un posto e degli amici con cui lavorare, un posto dove potessi scolpire al tavolo, come piaceva a me. Mi specializzai nei pezzi delle scacchiere, scolpivo regine, re, cavalli, alfieri e torri.
Quando uno degli insegnanti dell’Istituto d’Arte, Lanciotto, andò in pensione, i miei amici mi incoraggiarono a partecipare al concorso per il posto vacante. Mentre oggi una tale posizione è stabilita a livello statale, all’epoca l’Istituto era autonomo e poteva fare la sua selezione personale. Mi fu concesso di presentare domanda con la valutazione finale di un mio ambizioso progetto.
Lavorai sodo per vincere quel posto all’Istituto d’Arte. Feci un grande vaso della tradizione classica con intricate decorazioni di foglie e spirali, una testa grottesca e un gruppo di animali fantastici intrecciati. Il vaso fu sbiancato immergendo i pezzi di pietra translucida nell’acqua calda, un processo che fa assomigliare l’alabastro al più elegante marmo e che fa risaltare i dettagli dell’intaglio.
Il lavoro è stato prova non solo della mia abilità, ma anche del senso di comunità degli artigiani, in quanto altri lavorarono con me per preparare una presentazione meritevole che mostrasse la padronanza di diverse tecniche in un arco di tempo ridotto. Non tutti, comunque, volevano condividere con me i propri segreti; quando andai a chiedere dei modelli per i vasi classici, mi furono negati, ma un giorno, in un momento in cui nessuno stava guardando, riuscii a osservare gli esempi furtivamente. Non volevo copiare, ci mancherebbe, ma volevo incorporare le forme tradizionali nel mio lavoro.
Il mio elaborato vinse e, dopo un corso di preparazione all’insegnamento, divenni professore. All’inizio ero agitato perché mi paragonavo a maestri che consideravo parecchio superiori a me, ma pian piano scoprii le mie naturali capacità, lavorando fianco a fianco col collega Ennio Furiesi (detto Pizzi).
Per me fu un miracolo, mi consideravo una delle persone più fortunate al mondo perché avrei sempre fatto ciò che amavo. Ero libero di scolpire, e non solo oggetti commerciali per mantenere la famiglia.
Ho istruito alcuni alabastrai e artigiani eccellenti: Marco Ricciardi, Silvia Provvedi, Roberto Chiti, Alessandro Marzetti, Stefano Galli, Paolo Pineschi, Jacopo Fabbri, Daniele Boldrini, Gloria Giannelli e Dario Pruneti. E sono solo alcuni.
Per la maggior parte, i miei studenti non sono diventati artigiani dell’alabastro, ma ho insegnato loro non solo la competenza tecnica, ma anche un “esempio di comportamento” per perpetuare le tradizioni degli alabastrai. Quando iniziai la mia professione all’Istituto d’Arte, insegnavo un mestiere ancora vitale, ma sempre di più i genitori richiedevano ai figli di trovare altre occupazioni, come avevano fatto i miei con me. Nel mio cuore so che a questi ragazzi ho insegnato molto, non solo le tecniche artigiane, ma anche un modo di vivere e una giusta mentalità.