Gli alabastrai lavoravano duramente, ma si godevano anche la vita, tant’è che la settimana lavorativa era organizzata compatibilmente con le loro abitudini alcoliche e anarchiche. Lavoravano martedì, mercoledì e giovedì: mattina e pomeriggio.
La giornata tipica aveva inizio alle sette del mattino nella nostra bottega di famiglia, così come nelle altre quindici botteghe del vicinato; in quei tempi remoti in ciascuna di queste officine dell’alabastro si prodigavano circa trenta, quaranta persone: erano tantissimi! Dopo due ore di lavoro poi si arrendevamo alla colazione; dalle nove alle dieci tutti gli alabastrai si radunavano sul prato della vicina chiesa di San Giusto, con pane e vino sotto braccio.
Il venerdì solitamente lavoravano fino a tarda mattinata, poi chiuso l’uscio andavano in centro città a riscuotere dai vari commercianti, che vendevano i loro oggetti in conto-vendita, quanto dovuto. La mattina si concludeva con un bel pranzo. Il pomeriggio invece era libero, arrivavano i mercanti per il mercato all’aperto del sabato mattina e i grandi sfruttavano quel trambusto, quel via vai di gente, per riordinare la bottega, per giocare a carte o fare due passi in città.
Il pranzo del venerdì era a base di trippa, un’usanza locale che, con il mercato, portava gente dalla campagna in città e riempiva ristoranti e osterie. Il menu includeva altre tipiche pietanze volterrane, come le chiocciole, il baccalà, la panzanella, le pappardelle con la lepre, l’anatra o l’agnello.
La domenica mattina molti alabastrai lavoravano per il solo piacere di sfidare i preti; gli anarchici alabastrai non andavano mai in chiesa. All’una, all’ora di pranzo, mettevamo le gambe sotto il tavolino con il pasto speciale della settimana ad incoronare la tovaglia e, alle due, migravano nei bar di quartiere a giocare a carte. Mentre noi ragazzi giocavamo a calcio, le donne stavano a casa a pulire e a mettere in ordine.
La mia famiglia inizialmente viveva nella zona di Santo Stefano, in quel periodo frequentavamo il bar La Punta. Mi ricordo di quando il mio insegnante realizzava piccoli teschi di alabastro che usava come valuta, chiamati dragoncini perché il barista de La Punta, Dragone, dava trippa e vino solo in cambio di quelli. Poi, compiuti circa dieci anni, la mia famiglia si trasferì in San Giusto e da allora cominciammo a frequentare il bar del Circolo ARCI.
Ogni zona della città aveva i suoi bar e la cultura degli alabastrai era legata al vino che addolciva le loro gole polverose. C’erano “più bar a Volterra che chiese a Roma” si diceva. Ogni alabastraio aveva per forza il suo bar, erano pochi gli alabastrai che si fermavano lungo la via da un bar all’altro per mettersi a chiacchiera e a discutere.
Escluse le carte, il gioco più popolare era il gioco del fiasco. Il gioco del fiasco coinvolgeva sei persone, di cui quattro giocavano e due guardavano; dopo il primo turno, due venivano eliminati e due vi subentravano. Il gioco durava più o meno un’ora, durante la quale il fiasco si svuotava e chi perdeva di lentezza doveva pagarlo. Non giocavano mai per soldi, solo per il costo del vino; gli alabastrai avevano un detto: “chi bacia la bottiglia paga il conto”.
Il lunedì, quando il resto del mondo tornava a lavoro, gli alabastrai si riposavano e il pomeriggio era dedicato alle merende: un ulteriore pasto con molto da bere che rimediava i postumi o ”fumi del vino” della domenica.
Nei lunedì di bel tempo gli alabastrai andavano a fare picnic ai fiumi a valle, al Cecina e all’Era, a pescare e a nuotare. L’acqua veniva prima benedetta versandoci del vino e solo dopo vi si immergevano. Il pesce che prendevano, ugualmente consacrato col vino, era grigliato su un fuoco all’aperto. Con pane e una pentolata di zuppa preparata dalle mogli, i festeggiamenti duravano tutto il pomeriggio. Ci vedevo grande poesia nell’assurdo rituale della consacrazione.
Il martedì mattina, invece, veniva trascorso in bottega, più per organizzare il pomeriggio che per lavorare. Gli alabastrai si radunavano a mangiare e bere all’aperto, tempo permettendo, lungo le mura, d’autunno ad ovest in un posto al sole e lontano dal vento, d’estate, a est e nei giorni brutti all’osteria o al ristorante.
Quando ero ragazzino, io e altri miei amici, ci trattenevamo alle merende con la speranza di guadagnare qualche mancia. Gli alabastrai di tanto in tanto ci chiamavano: “vieni qui, bimbo, vammi a comprare dei sigari” o “portami un fiasco di vino”, affidandoci così dei soldi per la commissione. Alle volte eravamo proprio sfortunati, con il sacrificio di lunghe camminate ci chiedevano di prendere dell’acqua alla fonte di San Felice che aiutava a smaltire la sbornia e a tornare sobri. Nelle nostre spedizioni per prendere dei fiaschi di vino, percorrevamo le strade nascondendoceli sotto le giacche per non essere visti dalle donne che si riunivano sulle porte a parlare e lavorare a maglia. Le donne erano al corrente di tutto ovviamente, ma tacevano per non farci fare brutta figura. Più tardi la sera, le mogli diventavano iene e sistematicamente rimproverano i mariti, specialmente se i postumi non accennavano a diminuire.
La più grande festa degli alabastrai era il 18 ottobre, il giorno di S. Luca, santo patrono dei lavoratori di pietre e legno, che veniva organizzata nell’associazione almeno a partire dal XIV secolo, estrema data di cui abbiamo notizia. Gli artigiani dell’alabastro ne hanno preso parte dal XVI secolo, con la riscoperta di questa industria. Una delle responsabilità principali dei funzionari dell’associazione, della corporazione della Pietra e del Legname, era la preparazione dei festeggiamenti. Le processioni terminavano in massa in chiesa, con elemosine in cera. Dal 1600 in poi il lavoro venne severamente vietato durante quel giorno; persino indossare abiti da lavoro era proibito. La corporazione fu abolita nel 1870, ma la tradizione della festa è rimasta, nonostante abbia perso il suo carattere religioso.
Era previsto che i proprietari delle botteghe pagassero una grandiosa cena al ristorante per i propri dipendenti. Da bambini osservavamo quella magnifiche cene a base di pollo, piccioni e anatra e ci riempivano le tasche di monete e cioccolatini. Mi ricordo le bevute e le canzoni corali del tipo “Hanno bevuto i nostri babbi? Hanno bevuto le nostre mamme? Sì! E a noi che siamo i figli fateci bere, bere, bere!”
A volte in questi festeggiamenti gli alabastrai organizzavano dei picnic con pietanze come le chiocciole, la trippa o il pesce e un piatto con salsiccia e fagioli che richiedeva delle ore perché la preparazione fosse perfetta. Al mattino, una processione di carretti, bici, moto e api (a tre ruote, tipicamente usati per la campagna) lasciava la città col cibo, con la damigiana da cinquanta litri per il vino, panche e stoviglie. Per riprendersi alcuni si prendevano una settimana di pausa dopo il S. Luca.
Bere spesso rendeva gli alabastrai turbolenti e litigiosi, facili alla lite. Volterra, come molte città medievali, aveva le sue fazioni e rivalità, specialmente tra il quartiere della periferia e il centro, del quale si percepiva il senso di superiorità. Di notte le strade erano scarsamente illuminate e l’oscurità nascondeva i tafferugli.
Il mio amico scultore Trafeli, conosciutissimo a Volterra per le sue opere mirabolanti, mi raccontò la storia di uno scontro che ebbe luogo in uno di quei lunedì alticci, di quando una combriccola di alabastrai si era radunata fuori dalla porta S. Francesco e si era accordata sul picchiare il primo poveretto che sarebbe uscito da lì. Attesero per molto fuori porta, ma per la sfortuna sua un uomo aveva deciso di passare da lì con la sua giacca appoggiata sulle spalle, beato e inconsapevole del pericolo. Gli alabastrai erano pronti a saltargli addosso, quando uno degli aggressori gridò: “Aspettate, fermi, è il mi’ fratello!”. Esitarono per un momento, poi fecero spallucce: “Ciò che è detto è detto!” e menarono il povero ragazzo.
C’è un lato amaro in molte storie sugli alabastrai e spesso anche nell’umorismo. Gli scherzi, che venivano fatti agli apprendisti per selezionare i più scaltri dagli ottusi, quelli più inclini ad adattarsi ai rapporti in bottega da quelli che avrebbero trovato difficoltà, erano “leggermente pesanti”. Dei tanti bambini che venivano mandati in bottega dalla città e dalla campagna per guadagnarsi da vivere ed essere presi come apprendisti non tutti riuscivano ad abituarsi a una vita che richiedeva non solo abilità, ma anche la capacità di adeguarsi e lavorare insieme tutta la settimana. Non tutti erano svegli e venivano messi alla prova da espedienti di uomini che potevano essere spesso rudi.
Tra le prove, una era quella di chiedere all’apprendista di andare a comprare dal commerciante di tinte, complice dello sberleffo, un po’ di “ombra di campanile“. Al ragazzo veniva data una bottiglia per trasportarla, sarebbe poi uscito per andare al negozio in centro, ovviamente estremamente distante, dove gli avrebbero detto che era terminata e di tornare il giorno seguente. Rientrava a bottega tra le risa dei compagni.
I più vispi afferravano lo scherzo e prenderlo bene significava superare la prova.
Nella bottega di mio padre, un apprendista venne imbrogliato da un alabastraio che si lamentava perché non aveva abbastanza forza per tirar su la pesante bombola di propano. Il propano veniva usato per riscaldare la vasca d’acqua per sbiancare l’alabastro. Allorchè l’alabastraio sfidò l’apprendista dicendo che neanche lui ce l’avrebbe fatta. Il giovane credulone sollevò orgoglioso la bombola in aria per pavoneggiarsi, cosa che significava che da lì in poi sarebbe stato lui destinato al compito di spostarle.
Un’altra prova alla bottega di mio padre era la prova di Montalcino, una prova di virilità. All’apprendista veniva dato l’incarico di raccogliere la polvere e smuoverla con un setaccio, una forma rettangolare in legno, con un vaglio all’interno. Doveva ricreare una montagnola e dopo gli veniva detto di calarsi i pantaloni e sedersi sopra di quella. L’impronta determinava il superamento o meno della prova.
Queste abitudini erano fasciste e maschiliste, abitudini che nascevano dalla disuguaglianza dei sessi nella Volterra di un tempo.
La disuguaglianza a quei tempi era forte; a quei tempi se una donna andava con un uomo con il quale non era sposata, era vista come una sgualdrina; se un uomo andava con tante donne allora era “bravo, bello e ganzo”. Le donne erano semplici corpi da desiderare: calendari di donne nude ornavano molte botteghe, erano regali del barbiere per i propri clienti.
Mi ricordo come gli alabastrai guardavano le bellissime turiste che arrivavano nella sua zona, a S. Giusto, per vedere le maestose rupi delle Balze e le pittoresche strade a ciottoli, spesso percorse da greggi di pecore. Gli alabastrai approfittavano delle loro finestre basse per stare a guardare le gambe delle donne. Uno aveva attrezzato uno specchio per ottenere una miglior angolazione. Comunque, era il sole della sera, nella piazza centrale, che forniva le migliori visioni di gambe quando rifulgeva attraverso le gonne. Gli alabastrai si posizionavano per lo spettacolo di conseguenza.
Ho ormai da anni una compagna costante, Graziana, che fa al caso mio, ma, prima di lei, quando mi incontrò per la prima volta, mi credeva un Don Giovanni. Al principio della nostra conoscenza, mi invitò a cena con alcune sue amiche. Dopo un po’ ne arrivarono altre e poi altre ancora, fino a quando non fui circondato da almeno sette donne. Ai tempi il mio Italiano era esitante e non riuscivo a capire molto della rapida conversazione che saltava da un argomento all’altro. Verso la fine della serata, si rivolsero tutti a me, gentilmente, per conoscere i miei pensieri; io riuscii a esprimere solo la mia gratitudine per l’opportunità di cenare in una “tipica famiglia italiana”. Ero raggiante.
Con il vino e le donne convive il canto, tanto amato dagli alabastrai. La città risuonava del suono delle raspe, delle seghe e degli scalpelli, mazzuoli e martelli per il ferro e il bronzo, ma anche dei canti, principalmente opera lirica, Verdi, Puccini, Rossini e canzoni della tradizione. In bottega spesso gli alabastrai sceglievano i ruoli di un’opera e cantavano l’uno con l’altro, per esempio uno il conte, uno Figaro, uno Bartolo dal Barbiere di Siviglia – e non solo dei frammenti, mi ricordo che qualcuno non esitava a cantare un’intera opera. Si incontravano in gruppi ad ascoltare la radio nei bar, specialmente per le trasmissioni di lirica del giovedì pomeriggio.
I cantanti bravi prendevano parte nei cori delle opere rappresentate a Volterra, i cui cittadini erano noti per il loro buon apprezzamento. Per aver successo come cantante Volterra era, per l’aspirante cantante, la propria realizzazione. Il teatro Persio Flacco era molto affollato in occasione delle rappresentazioni e i posti più economici erano quelli negli ordini più alti, colmi di artigiani. Quelli che non potevano permettersi posti a sedere si radunavano in uno spazio dietro al teatro da dove potevano almeno sentire l’esibizione, alcuni portandosi le sedie da casa. Il coro di tenori e baritoni, tra cui gli alabastrai, era a volte la parte migliore, nonostante le prove del lunedì sera fossero sempre difficoltose perché non si erano ancora ripresi dalle merende.
La natura di un alabastraio era spesso spunto per un soprannome, che aveva in tanti e molti dei quali sono posseduti ancora oggi. Quando vedo i manifesti funebri riconosco la persona esclusivamente dal soprannome, non dal cognome. Mio fratello è chiamato Pupo e altri soprannomi possono riferirsi a caratteristiche fisiche, come Nasino, Basettone, Cieco, Gobbo, Biancaneve, Lollo Bello e Lollo Brutto.
Altri ancora venivano assegnati per il carattere o per dei comportamenti.
Dare nomignoli non era prerogativa degli alabastrai, ma un’usanza sia toscana che italiana. Il re d’Italia Vittorio Emanuele III, che si accordò con Mussolini, i fascisti, i nazisti e gli ufficiali di questi partiti venivano chiamati Parapi, un soprannome sprezzante in riferimento a un gobbo che somigliava a quel re basso di statura. I Volterrani dicevano che le iniziali del re, V.E., che adornavano i berretti dei carabinieri, ufficiali di polizia che servivano il regime, stavano per Vagabondi Effettivi. L’aereo da ricognizione dell’Alleato che durante l’occupazione tedesca sorvolava regolarmente la città e girava intorno alle torri della prigione fu rinominato Cicogna; la torre più grande della Fortezza di Volterra è Il Maschio e la più piccola è La Femmina.
Gli alabastrai si conoscevano per il loro soprannome; condividevano storie, scherzi, canti e si aiutavano l’un l’altro nei momenti difficili. Quali che fossero le rivalità tra quartieri o famiglie queste non erano comparabili alla solidarietà di un gruppo unito da un mestiere, abitudini, svago, valori comuni e modi di vedere, un solidarietà che li ha sostenuti nel XX secolo e nei suoi giorni bui.