Scendendo lungo le mura, verso Porta all’Arco, in un cantuccio, a poche centinaia di metri da piazzetta dei Fornelli, si può notare una Smart verde, una porta aperta e il ronzio di un motorino. Il Pupo sta lavorando.
Occhiali calati sulla punta del naso, martello pneumatico in mano è alle prese con una sottile mezzaluna di alabastro.
È un esperimento, voglio vedere se con il martello pneumatico riesco a farci un volo d’uccelli senza che mi si rompa.
Con la fresa non ci sarebbero problemi li ho già rifatti, ma mi da noia la polvere bruciata. Ad adoperare il martello pneumatico penso di essere stato fra i primi. I vecchi alabastrai dicevano che con quest’aggeggio l’alabastro non si poteva lavorare, si rompeva e invece non era affatto vero.
Quando con il martello pneumatico riuscii a fare i primi lavori, gruppettini di cavalli, un cane con un fagiano fu un cambiamento quasi radicale. Mi ricordo che questi pezzetti li portavo in giro per farli vedere, perché mi sembrava qualcosa al di fuori del normale, che non era mai stato fatto; la gente comunque non ci credeva e veniva a vedere in bottega. Piano, piano sono arrivato a fare tutto con il martello pneumatico anche per le rifiniture. Ne ho sperimentati di attrezzi, di punte, di tipi di acciaio di martelli. E ora sono in grado di lavorare in casa con il martello più piccolo: poco rumore, poca polvere.
Se avessi dovuto lavorare con i mezzi di prima alla mia età non avrei potuto fare queste cose. Chi stava al banco, prima, poteva resistere fino a 60 – 65 anni, poi non ce la faceva più a lavorare con le raspe, i ferri, le seghe. Lo sforzo era maggiore, era troppa la fatica.
Tecniche a parte cos’è per te lavorare l’alabastro?
Per me è un divertimento, è un piacere fisico: tagliarlo, romperlo, inciderlo, scolpirlo è una sorta di cura. Quando lavoro dimentico i miei malanni. Se non avessi la mia bottega e il mio lavoro non so proprio cosa farei.
Cosa ci vedi nella pietra?
Il blocco mi suggerisce la figura. Sì, mi diverto a vederci qualcosa perché l’alabastro, non essendo a pareti come il marmo, ha sempre delle forme particolari. Come diceva Michelangelo il lavoro è già nella pietra, basta toglierci quello che c’è in più. Lo dicevo sempre anch’io. Il segreto è vedere quello che c’è dentro e poi levare quello che c’è in più.
Ma facile facile non è. È sempre una continua discussione con la pietra, perché tu vorresti fare in un modo e lei è in un altro. Non puoi fare quello che volevi, perché c’è un impurità, perché non hai calcolato bene le misure, perché la pietra non te lo permette e alla fine devi arrivare a un compromesso con la pietra e fare un lavoro diverso da come l’avevi pensato. Ma risulta ugualmente.
Aveva ragione un vecchio meccanico che mi disse: “bello sforzo voi alabastrai: gli date una botta di qui e una di là ed è bell’è fatto. Un c’hai mia da metterlo in moto. Io se non la metto in moto la macchina non me la prendono mica”.
Ti è capitato che la pietra non accettasse il compromesso e ti dicesse di no?
Non una volta, tante. Impostavi un lavoro in un dato modo, non vedevi il difetto, e la pietra si rompeva. Rincollarla col tipo di mastice che c’era non valeva la pena. Anche se io ne ho rincollati abbastanza, ma l’incollatura si vedeva. Oppure sbagliavi le misure e dovevi ripartire da capo.
Ora ho imparato.
Dici che ora hai imparato. Quanto tutti questi anni ti sono serviti per migliorare quello che fai?
Altroché. Adesso le proporzioni le ho scoperte, non mi viene una gamba più lunga e una più corta. Prima c’erano troppi vuoti adesso c’è una simmetria fra vuoti e pieni, c’è un equilibrio come in architettura. E ora nelle figure riesco meglio a rendere l’idea dell’armonia e del movimento.
Errori e difetti di un lavoro?
L’ultimo errore l’ho fatto con una testa di cavallo. L’avevo scolpita in modo particolare e l’effetto era brutto. A forza di cercare di correggerlo andò tutto a monte. Ma a cosà e ricosà mi diverto. Alle volte guardo un gruppo di animali con un altra luce, non mi piace più e ci rimetto le mani.
Cosa pensi quando imposti un lavoro?
Prima di tutto deve essere qualcosa che mi sento di fare e prima di tutto deve garbare a me. Anche se è sempre bene ascoltare la gente perché, alle volte, anche il più stupido può aver visto un modo per cambiare il lavoro in modo che piaccia di più. Il bello comunque è relativo. A me dà soddisfazione quando la gente che ha comprato un pezzo da me ritorna in bottega dopo anni e mi dice: “sì, sono belle le cose fai ora, ma come il mio non ne hai più fatti.”
Perché gli animali?
Perché mi permettevano di creare nella pietra il movimento. E come dicevano i vecchi alabastrai se nella figura c’è movimento c’è vita, c’è spirito. Mi è sempre interessato dare vita, armonia, equilibrio e movimento alle mie sculture. Se ci sia riuscito o no questo sta agli altri dirlo.
Dicevi che cominciasti con i cavalli.
I cavalli si possono fare in qualsiasi posizione e risultano sempre. È la figura più adatta per sbizzarrirti. È l’unico animale che puoi fare come ti pare, che si può impostare in mille modi. Anche non naturali, ma sono, comunque, belli.
E gli altri animali?
Ho sempre cercato di studiarli. Quelli che ho potuto al naturale gli altri sui libri e poi ho lavorato di fantasia. Li ho fatti come sarebbero garbati a me. Prima facevo spesso gli schizzi per un contorno un profilo degli animali da tanto li ho abbandonati. In vita mia ho fatto cinghiali, lepri, fagiani, starne, anitre, istrici, cervi, cani, lupi, gabbiani, delfini e persino orsi, ippopotami, giraffe, gazzelle, coccodrilli elefanti e poi, fiori, orchidee, rose, alberi, ulivi, querce.
Una poetica dedicata alla natura… direbbero i critici d’arte.
Noi fin da ragazzi si è avuto il contatto con la natura siamo vissuti in campagna, e poi si andava a caccia e a pesca…
E a parte gli animali cosa hai scolpito?
Ritratti, ma pochi solo su ordinazione. Teste classiche ne ho fatte per un armiere; così ebbi il primo fucile per andare al capanno. E anche due o tre madonne e un santo: San Giusto.
Un ateo che fa figure religiose…
Il lavoro è lavoro.
Arte o artigianato il tuo?
Non lo so e non mi pongo nemmeno il problema. Non sono come quelli che si definiscono scultori e hanno sempre trattato gli alabastrai come morti di fame. Io sono un alabastraio.
Quante sculture hai fatto in vita tua?
Bah… non saprei. Fammi pensare. Diciamo una media di 3 a settimana da quando mi misi per conto mio e fanno quasi cinquant’anni. Aspetta proviamo a fare un conto. Un anno ha 52 settimane per 50 fa 2600
settimane per 3 uguale a 7800. Tante. Senza contare la parte ornamentale che ho fatto con il mi babbo: le colonne, i vasi, le lampade.
Quanto ci impieghi a fare un pezzo?
So quando lo comincio, ma non so quando finisco; dipende dalle difficoltà che incontro nella pietra. Ogni pezzo è storia a sé. Prima facevo attenzione tenevo il conto del tempo anche se non sono mai voluto cadere in queste cose. Questo è il mio lavoro, un lavoro particolare e ci impiego quanto mi pare. E poi
adesso non faccio più la produzione. Il tempo non lo conto.
Sempre alabastro o hai provato altri materiali?
Diamine! Ho lavorato la creta, la plastilina, il tufo, il marmo, le pietre dure, il legno, l’ulivo, le radiche di scopa trovate nel bosco quando andavo a caccia.
E non ti mai venuto a noia il lavoro?
No, non mi viene a noia perché ogni volta cambio la forma, cambio sistema, cambio soggetto, cambio strumenti. Anzi adesso l’unica cosa che faccio volentieri è lavorare l’alabastro. Quando mi siedo davanti al banco divento un altro, mi sento sollevato e mi diverto.
Una coppia anziana e una ragazza si affacciano alla porta. Timorosi. Sono giapponesi e non si azzardano ad entrare. Il Pupo fa segno di passare, ringraziano con una serie di inchini. Si aggirano silenziosi, guardano i pezzi esposti sui ripiani osservano gli strumenti, il banco e il pezzo in lavorazione.
Antonella che è appena entrata a salutare cerca, disperatamente, un catalogo di una mostra, un libro per spiegare chi è il Pupo, ma non c’e nulla da fare. Non si trova. Da qualche parte ci deve pur essere, ma si sa: Aulo non ci tiene ai ricordi. La ragazza, in inglese, chiede ad Antonella se possono fare delle fotografie, ringraziano con altri inchini, poi adocchiano una piccola anitra di un alabastro giallo come lo zolfo. Il Pupo la lucida, la firma e glieli impacchetta. Cinquanta euro nonostante le proteste di Antonella. E quelli con una serie infinita di inchini se ne vanno contenti.
Come stabilisci il prezzo dei tuo lavori?
Facevo e faccio di quegli sbagli… Mi ricordo una volta, erano due stranieri, avevo un gruppo di cavalli di 30 centimetri. Gli interessava io gli scrissi il prezzo su un biglietto volevo 120 mila lire. Lo guardarono, riguardarono e se andarono senza dirmi nulla. Poi venne non mi ricordo più chi e mi disse: “Pupo, qui c’hai scritto un milione e duecentomila.”
In un’altra occasione, proprio all’inizio sempre per un gruppo di cavalli chiesi 170 mila glielo incartai e questo mi mise 17 mila lire in mano e se ne andò. Il prezzo l’ho sempre fatto d’istinto. Alle volte ho chiesto troppo e mi sono pentito, alle volte troppo poco.
Qual è il pezzo più importante fra i 7 mila e rotti che hai fatto?
Un gruppo di cavalli 40 per 40 centimetri in un tipo di agata nera difficile da lavorare. Lo prese la banca di Abbiategrasso. Credo sia ancora nella sala riunioni. E poi due cavalli rampanti di 2 metri. Uno in alabastro lo feci negli anni ’80 a Saline di Volterra nel laboratorio di un amico. L’altro in pietra leccese, bianca, un tufo più morbido dell’alabastro che col tempo diventa grigio. È nel giardino di un pastificio di Otranto. Lo feci nel 1995 d’agosto in una piazza durante un simposio di scultura. Si lavorava dalla cinque del pomeriggio a mezzanotte. Ci pagarono il viaggio e 2 milioni e mezzo di lire.
E il lavoro più strano che hai mai fatto?
Un pasticcere di Volterra, non so più per quale manifestazione, mi disse se gli lavoravo un blocco di cioccolata facendoci un cinghiale coi cani. Io contento mi ero organizzato per raccogliere la cioccolata che avanzava. Ma non so come l’avesse fatta. Era cattivissima.